Azioni

Evoluzione dei frumenti e origine del farro

Da Prometeo Wiki.

Versione del 29 nov 2013 alle 12:04 di Cristiano (Discussione | contributi)

I cereali, più di qualsiasi altro gruppo di piante coltivate, rappresentano la storia dell’agricoltura e della sua evoluzione. Non è fuori luogo affermare che l’evoluzione dei cereali coincide con l’evoluzione dell’agricoltura a partire dalla loro origine comune, cioè circa 10.000 anni fa. Le forme selvatiche di cereali sicuramente hanno un’origine più lontana, ma le prime forme coltivate risalgono al Neolitico, nella zona di origine dei cereali, la Mezza Luna Fertile (area fra Israele, Libano, Siria, Iraq), quando da pastorale il sistema agricolo diventò stanziale, perché iniziò la coltivazione delle piante e le prime ad essere coltivate, appunto, furono i cereali. Un aspetto molto importante da sottolineare è che tutte le specie esistenti 10.000 anni fa esistono ancora oggi, sia in forma spontanea che coltivata e, a differenza di altre specie di interesse agrario scomparse, è possibile studiarle oggi e comprendere con esattezza i processi evolutivi avvenuti in questo lungo periodo e le relazioni fra le diverse specie, frutto di complessi processi naturali di incrocio, mutazione, selezione e azione umana, mirata alla scelta dei tipi più adatti alle proprie esigenze, agronomiche e alimentari.

Figura 1


La domesticazione è stato un vero e proprio processo di selezione genetica che, modificando alcuni tratti chiave, ha trasformato piante selvatiche in piante coltivate. Nei cereali la transizione dal selvatico al domesticato ha riguardato essenzialmente tre caratteri principali coinvolti nella facilità di raccolta del prodotto: la resistenza della spiga (la spiga che non si disarticola a maturazione disperdendo il seme è essenziale per poter coltivare e raccogliere il prodotto), la “vestitura” della cariosside (le cariossidi nude sono di immediato utilizzo rispetto a quelle vestite che rimangono unite a glume e glumelle) e la dimensione della cariosside (la cariosside più grande è stata preferita). Il capostipite all’origine di questo lungo e complesso processo (circa 12.000 anni fa), che va sotto il nome di “domesticazione”, è il monococco selvatico, dal quale si è originato il monococco coltivato, il primo frumento coltivato (circa 10.000 anni fa). È per questa ragione che Prometeo ha dato al monococco l’appellativo di ”padre di tutti i frumenti”.

Figura 2

La coltivazione del monococco è stata abbandonata circa 4.000-5.000 anni fa, durante l’Età del Bronzo, quando l’agricoltore cominciò a selezionare i frumenti tetraploidi, a partire da circa 7.000-9.500 anni fa dal T. dicoccoides (frumento tetraploide con genoma AABB), il progenitore selvatico dei frumenti tetraploidi coltivati (tra i quali dicocco e frumento duro), diffuso ovunque nel bacino del Mediterraneo. In tutta questa area il farro dicocco è stato il frumento vestito più coltivato e utilizzato fino ai tempi moderni. L’origine dei frumenti esaploidi (fra i quali spelta e frumento tenero) è stata più recente, circa 8.000 anni fa (figura 1).

È evidente come, da forme selvatiche, attraverso processi selettivi o incroci interspecifici o intergenerici naturali, siano derivate altre forme selvatiche e le specie coltivate. Nel caso dei frumenti tetraploidi (figura 2) mostra le immagini delle specie maggiormente diffuse, dalla forma selvatica (T. dicoccoides) con spiga fragile e cariosside vestita, al dicocco coltivato (T. dicoccum) che presenta sempre la cariosside vestita, ma la spiga è resistente e non si disarticola a maturazione, fino alla specie “più evoluta”, il frumento duro (T. durum), che oltre alla spiga resistente ha la cariosside nuda.

La coltivazione del farro

La coltivazione del farro si è tramandata fino ad oggi lungo i diecimila anni che ci separano dal periodo del Neolitico. È verosimile ipotizzare che in alcune aree, come ad esempio la Valnerina (Umbria) e la Garfagnana (Toscana), la coltivazione delle relative varietà locali di farro dicocco non si sia mai interrotta. Tuttavia, nel corso della seconda metà del XX secolo, in seguito alla modernizzazione dell’agricoltura e al cambiamento delle abitudini alimentari, anche il farro ha subito lo stesso inesorabile destino di altre colture “minori” ed è gradualmente scomparso dalle rotazioni per sopravvivere come coltura “relitta” in ristrettissime aree marginali. A partire dagli anni ‘80, si è andata affermando una maggiore consapevolezza da parte sia del mondo scientifico che del mondo agricolo del valore della diversità genetica e della necessità di salvaguardare l’agrobiodiversità. Sono quindi cambiati gli obiettivi strategici delle politiche di sviluppo agricolo che hanno tenuto in considerazione anche altri fattori contingenti quali la sempre maggiore sensibilità dei consumatori nei confronti della qualità degli alimenti, la necessità di diversificare le produzioni agricole, l’introduzione di sistemi agricoli a basso impatto ambientale e la diffusione dell’agricoltura biologica. Tutto ciò ha favorito il ritorno in coltivazione di molte specie “minori” e, tra esse, il farro ha rappresentato il primo caso di recupero e valorizzazione di una pianta che rischiava di scomparire ed è per questo un interessante modello di riferimento. In termini di erosione genetica, d’altro canto, è plausibile affermare che la ripresa di interesse intorno ad una specie potrebbe – al contrario – essere ugualmente causa di perdita di variabilità, soprattutto in relazione all’identità genetica delle varietà locali, sia per l’estensione della coltivazione in areali nuovi sia per l’”introgressione” di materiali genetici non autoctoni nelle aree tradizionali e anche per banali inquinamenti meccanici (Porfiri e Fiorani, 2002; Porfiri, 2004).