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La diffusione del farro: differenze tra le versioni

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Il [[farro dicocco]] è la specie maggiormente conosciuta e coltivata in Italia e lo è stata anche nel corso dei secoli. Infatti, anche se questa specie rappresenta una forma intermedia durante il processo evolutivo, essa è stata uno dei cereali più stabilmente coltivati, probabilmente in conseguenza della sua ampia adattabilità a condizioni marginali di coltivazione, alla tolleranza ai diversi stress e alla sua adattabilità all'uso alimentare in tutti i tempi.  
 
Il [[farro dicocco]] è la specie maggiormente conosciuta e coltivata in Italia e lo è stata anche nel corso dei secoli. Infatti, anche se questa specie rappresenta una forma intermedia durante il processo evolutivo, essa è stata uno dei cereali più stabilmente coltivati, probabilmente in conseguenza della sua ampia adattabilità a condizioni marginali di coltivazione, alla tolleranza ai diversi stress e alla sua adattabilità all'uso alimentare in tutti i tempi.  
 
Non sono disponibili i dati ufficiali della superficie coltivata in Italia, quindi è possibile fornire soltanto una stima basata sulla conoscenza diretta della produzione e del mercato, pari a 5.000-6.000 ettari (di cui soltanto poche centinaia di ettari riguardano [[farro monococco|monococco]] e [[farro spelta|spelta]]), maggiormente concentrati nelle regioni centro-meridionali, negli areali collinari e pede-montani, interessando prevalentemente coltivazioni di tipo biologico.
 
Non sono disponibili i dati ufficiali della superficie coltivata in Italia, quindi è possibile fornire soltanto una stima basata sulla conoscenza diretta della produzione e del mercato, pari a 5.000-6.000 ettari (di cui soltanto poche centinaia di ettari riguardano [[farro monococco|monococco]] e [[farro spelta|spelta]]), maggiormente concentrati nelle regioni centro-meridionali, negli areali collinari e pede-montani, interessando prevalentemente coltivazioni di tipo biologico.
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'''La coltivazione del farro'''
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La coltivazione del farro si è tramandata fino ad oggi lungo i diecimila anni che ci separano dal periodo del Neolitico. È verosimile ipotizzare che in alcune aree, come ad esempio la Valnerina (Umbria) e la Garfagnana (Toscana), la coltivazione delle relative varietà locali di farro dicocco non si sia mai interrotta. Tuttavia, nel corso della seconda metà del XX secolo, in seguito alla modernizzazione dell’agricoltura e al cambiamento delle abitudini alimentari, anche il farro ha subito lo stesso inesorabile destino di altre colture “minori” ed è gradualmente scomparso dalle rotazioni per sopravvivere come coltura “relitta” in ristrettissime aree marginali.
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A partire dagli anni ‘80, si è andata affermando una maggiore consapevolezza da parte sia del mondo scientifico che del mondo agricolo del valore della diversità genetica e della necessità di salvaguardare l’agrobiodiversità. Sono quindi cambiati gli obiettivi strategici delle politiche di sviluppo agricolo che hanno tenuto in considerazione anche altri fattori contingenti quali la sempre maggiore sensibilità dei consumatori nei confronti della qualità degli alimenti, la necessità di diversificare le produzioni agricole, l’introduzione di sistemi agricoli a basso impatto ambientale e la diffusione dell’agricoltura biologica.
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Tutto ciò ha favorito il ritorno in coltivazione di molte specie “minori” e, tra esse, il farro ha rappresentato il primo caso di recupero e valorizzazione di una pianta che rischiava di scomparire ed è per questo un interessante modello di riferimento. In termini di erosione genetica, d’altro canto, è plausibile affermare che la ripresa di interesse intorno ad una specie potrebbe – al contrario – essere ugualmente causa di perdita di variabilità, soprattutto in relazione all’identità genetica delle varietà locali, sia per l’estensione della coltivazione in areali nuovi sia per l’”introgressione” di materiali genetici non autoctoni nelle aree tradizionali e anche per banali inquinamenti meccanici (Porfiri e Fiorani, 2002; Porfiri, 2004).
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Versione delle 14:38, 30 nov 2013

Il farro dicocco è la specie maggiormente conosciuta e coltivata in Italia e lo è stata anche nel corso dei secoli. Infatti, anche se questa specie rappresenta una forma intermedia durante il processo evolutivo, essa è stata uno dei cereali più stabilmente coltivati, probabilmente in conseguenza della sua ampia adattabilità a condizioni marginali di coltivazione, alla tolleranza ai diversi stress e alla sua adattabilità all'uso alimentare in tutti i tempi. Non sono disponibili i dati ufficiali della superficie coltivata in Italia, quindi è possibile fornire soltanto una stima basata sulla conoscenza diretta della produzione e del mercato, pari a 5.000-6.000 ettari (di cui soltanto poche centinaia di ettari riguardano monococco e spelta), maggiormente concentrati nelle regioni centro-meridionali, negli areali collinari e pede-montani, interessando prevalentemente coltivazioni di tipo biologico.



La coltivazione del farro

La coltivazione del farro si è tramandata fino ad oggi lungo i diecimila anni che ci separano dal periodo del Neolitico. È verosimile ipotizzare che in alcune aree, come ad esempio la Valnerina (Umbria) e la Garfagnana (Toscana), la coltivazione delle relative varietà locali di farro dicocco non si sia mai interrotta. Tuttavia, nel corso della seconda metà del XX secolo, in seguito alla modernizzazione dell’agricoltura e al cambiamento delle abitudini alimentari, anche il farro ha subito lo stesso inesorabile destino di altre colture “minori” ed è gradualmente scomparso dalle rotazioni per sopravvivere come coltura “relitta” in ristrettissime aree marginali. A partire dagli anni ‘80, si è andata affermando una maggiore consapevolezza da parte sia del mondo scientifico che del mondo agricolo del valore della diversità genetica e della necessità di salvaguardare l’agrobiodiversità. Sono quindi cambiati gli obiettivi strategici delle politiche di sviluppo agricolo che hanno tenuto in considerazione anche altri fattori contingenti quali la sempre maggiore sensibilità dei consumatori nei confronti della qualità degli alimenti, la necessità di diversificare le produzioni agricole, l’introduzione di sistemi agricoli a basso impatto ambientale e la diffusione dell’agricoltura biologica. Tutto ciò ha favorito il ritorno in coltivazione di molte specie “minori” e, tra esse, il farro ha rappresentato il primo caso di recupero e valorizzazione di una pianta che rischiava di scomparire ed è per questo un interessante modello di riferimento. In termini di erosione genetica, d’altro canto, è plausibile affermare che la ripresa di interesse intorno ad una specie potrebbe – al contrario – essere ugualmente causa di perdita di variabilità, soprattutto in relazione all’identità genetica delle varietà locali, sia per l’estensione della coltivazione in areali nuovi sia per l’”introgressione” di materiali genetici non autoctoni nelle aree tradizionali e anche per banali inquinamenti meccanici (Porfiri e Fiorani, 2002; Porfiri, 2004).