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Cos'è il farro

Da Prometeo Wiki.

Chicchi di farro.jpg

Figura 1. Composizione della famiglia delle Poacaee

Farro” è il nome comune con il quale sono chiamati i frumenti vestiti (hulled wheats in inglese), che differiscono dai più diffusi frumenti nudi (tenero e duro) perché al momento della trebbiatura le cariossidi non si separano dalle glumelle.

I frumenti appartengono al genere Triticum all’interno della grande famiglia delle Poaceae (figura 1), caratterizzata da numero cromosomico di base 7 (x=7). Il genere Triticum è il più importante per numero di specie coltivate e per ampiezza di diffusione e di utilizzazione e comprende tutte le specie di farro.

I farri sono stati i primi frumenti coltivati dall’uomo ed è possibile far risalire la loro origine a oltre 10 mila anni fa, nella zona della Mezza Luna Fertile (tra Iran, Iraq, Siria e Palestina), che rappresenta il centro di origine primario e il maggior centro di diversificazione per queste specie, delle quali tre in particolare hanno interesse agricolo e la loro coltivazione è giunta fino ai nostri giorni:

La classificazione delle diverse specie è oggi ben definita ed i recenti studi di genetica hanno chiarito con esattezza l'origine dei frumenti in generale e dei farri in particolare e hanno stabilito le relazioni fra le diverse specie, sia spontanee sia coltivate. Nella tabella 1 è riportata la classificazione ad oggi accettata e condivisa delle specie di Triticum più diffuse, con le caratteristiche più rilevanti per ciascuna specie.

Le tre specie di farro

Le tre specie di farro sono così classificate:

  • monococco (Triticum monococcum L. ssp. monococcum, per semplicità in questo sito sarà indicato come T. monococcum);
  • dicocco o semplicemente farro (T. turgidum L. ssp. dicoccum Schubler (sinonimo T. dicoccon Schrank), indicato per semplicità come T. dicoccum);
  • spelta (T. aestivum L. ssp. spelta, indicato per semplicità come T. spelta).

All’interno di ciascuna specie è possibile individuare diverse popolazioni locali, in particolare negli areali dove la specie si è maggiormente diffusa.

Il farro dicocco, il farro per antonomasia, il più coltivato nel bacino del Mediterraneo, presenta un elevato numero di varietà locali, derivanti dall’azione congiunta della selezione naturale e della selezione antropica. Esse differiscono per caratteri morfologici, fisiologici, agronomici e qualitativi e assumono una loro netta identità, spesso fortemente legata al territorio di origine. Infatti, alcune varietà locali, ad esempio il "farro della Garfagnana" e il "farro di Monteleone di Spoleto" (Monteleone di Spoleto ed il Suo farro), grazie alle loro particolari caratteristiche genetiche e di utilizzazione derivanti dall’ambiente di coltivazione, hanno raggiunto un legame indissolubile con l'ambiente di coltivazione e tutto il sistema produttivo, tale da sostenere la tutela da parte di specifici marchi di protezione della tipicità (IGP il primo e DOP il secondo).

L'intolleranza alle proteine del frumento

Il farro appartiene al genere botanico Triticum, così come il frumento, pertanto contiene glutine e non è adatto a soggetti affetti da celiachia.

Le proprietà tecnologiche e reologiche delle farine/semole (ad esempio volume del pane e tenuta della cottura della pasta) sono strettamente correlate alle proteine contenute nel cereale, in particolare al glutine e alla percentuale di glutenine e gliadine che lo compongono. Tra frumento e farro esistono però differenze sostanziali tra il numero di frazioni (subunità) che formano il glutine e il peso molecolare di queste diverse subunità (α-, γ-, ω-gliadine e glutenine ad alto e basso peso molecolare).

Analisi approfondite[1] hanno rivelato che il farro (sia monococco che dicocco) presenta, rispetto al frumento, un maggior contenuto totale in gliadine e inferiore in glutenine. Inoltre, nel farro il rapporto gliadine/glutenine è significativamente superiore e le α-gliadine sono predominanti, seguite dalla frazione γ- e dalle glutenine a basso peso molecolare. Ne deriva una composizione più “soft” del glutine, cioè minore tenacità.

Grazie a questa struttura, molti soggetti che soffrono intolleranze verso il frumento (non celiaci), manifestando coliti, gonfiori e cattiva digestione, non presentano gli stessi sintomi quando mangiano farro[2]. Poiché è stato dimostrato che tale intolleranza è causata da numerose componenti appartenenti a famiglie proteiche diverse (α-, β-, γ- e ω-gliadine e subunità gluteniniche ad alto e basso peso molecolare) ed è controllata da molti geni, si può presupporre che la minor “tossicità” del farro rispetto al frumento sia proprio dovuta alla diversa composizione qualitativa e quantitativa del glutine e delle sue subunità.

L'eliminazione totale di gliadine e glutenine non è possibile, perché non esisterebbe più il glutine, che è il fattore determinante le proprietà tecnologiche delle farine/semole: senza glutine è molto difficile fare un buon pane o una buona pasta. Farine “aglutinate”, ottenute da processi industriali di separazione del glutine dall’amido, sono messe a disposizione dei celiaci, ma il loro utilizzo nella preparazione di pane e pasta non è agevole e frequentemente, per dare la “forza” all’impasto si utilizzano altre matrici (patata, manioca, xantano). Se non è pensabile avere un frumento senza glutine è però possibile ricorrere a specie di Triticum, come il farro, in cui la composizione delle frazioni proteiche e, soprattutto, il rapporto fra le diverse frazioni, fanno sì che il contenuto totale in glutine sia inferiore ad altri cereali e la struttura dello stesso sia meno tenace, quindi più facilmente digeribile. Pertanto il farro, pur non essendo idoneo per soggetti celiaci, contribuisce a ridurre il livello di esposizione della popolazione a prodotti alimentari contenenti proteine potenzialmente tossiche.

Note

  1. Pruska-Kędzior A., Kędzior Z., Klockiewicz-Kamińska E., 2008. Comparison of viscoelastic properties of gluten from spelt and common wheat. Eur. Food Res. Technol. 227, 199-207.
  2. Zieliński H., Ceglińska A., Michalska A., 2008. Bioactive compounds in spelt bread. Eur. Food Res. Technol. 226, 537-544.